Ta članek z naslovom: "Zgodovinski pogled na sodobno krizo morale" je iz leta 2003. Po prebranem članku je Lode dobil navdih za pesem "Non venirmi a dire". Lep zgled, kako je lahko tudi strokovna literatura dobra priložnost za glasbeno umetnost. Lahko preizkusiš tudi Ti. :) | |
ERMANNO PAVESI, Cristianità n. 319 (2003)
Considerazioni storiche sulla crisi
morale contemporanea. Modelli educativi e violenza
1. La crisi della società moderna come crisi morale
Il tema
della violenza sembra caratterizzare spesso la vita moderna tanto
dell’individuo quanto della società. Aggressività e violenza sono certamente
costanti del comportamento umano in ogni epoca e in ogni cultura, ma i
princìpi che ispirano una società e l’educazione possono modificarne le
manifestazioni.
Il
filosofo anglosassone Alasdair MacIntyre, per esempio, nello studio Dopo
la virtù. Saggio di teoria morale (1), interpreta la crisi della società
moderna come una crisi morale e sottolinea come la concezione morale
dell’epoca moderna si differenzi nettamente da quella tanto dell’antichità
classica quanto del Medioevo. Nell’opera citata il filosofo anglosassone
esamina soprattutto l’origine della rottura radicale con l’etica precedente,
in cui l’antropologia di Martin Lutero (1483-1546) avrebbe avuto un ruolo
determinante, e i tentativi successivi, per MacIntyre tutti falliti, di costruire
l’etica su nuove basi. Nella società moderna si è aperta una nuova fase:
molti contemporanei non hanno più la fede in un sistema religioso né fiducia
nella capacità della filosofia di risolvere i problemi umani e si rivolgono
piuttosto alla psicologia. Ma l’analisi di alcune importanti correnti
psicologiche contemporanee ne mostra l’ambiguità nell’approccio al problema
del male e della violenza.
2. Etica antica e cristianesimo
La
struttura essenziale dell’etica "[...] è quella analizzata da
Aristotele [384-322 a.C.] nell’Etica nicomachea. Alla base di
quello schema teleologico c’è un contrasto fondamentale fra l’uomo come è di
fatto per motivi contingenti e l’uomo come potrebbe essere se realizzasse la
sua natura essenziale. L’etica è quella scienza che deve mettere gli uomini
in condizione di capire come effettuare il passaggio dal primo stato al
secondo. Perciò l’etica, considerata in questo modo, presuppone una qualche
dottrina della potenza e dell’atto, una qualche dottrina dell’essenza
dell’uomo come animale razionale, e in primo luogo una qualche dottrina del telos
umano. I precetti che impongono le varie virtù e proibiscono i vizi che ne
rappresentano le controparti ci insegnano come passare dalla potenza
all’atto, come realizzare la nostra vera natura e raggiungere il nostro vero
fine. Violarli significherebbe essere frustrati e incompleti, non riuscire a
conseguire quel bene della felicità razionale che è il fine particolare che
dobbiamo perseguire come specie. I nostri desideri e le nostre emozioni vanno
ordinati ed educati mediante l’uso di tali precetti e coltivando quelle
abitudini di comportamento che l’etica prescrive; la ragione ci insegna sia
qual è il nostro vero fine, sia come fare per raggiungerlo" (2).
Il
cristianesimo ha ripreso questa concezione del telos, cioè del fine
della natura umana, e delle virtù, completandola alla luce della Rivelazione
e della Tradizione. Il processo di "cristianizzazione" è stato
tale, che l’uomo moderno tende ad ascrivere le virtù all’ambito religioso, se
non a relegarvele, negando loro un posto nella società secolarizzata. È
quindi necessario sottolineare che le virtù non riguardano unicamente
l’ambito religioso, ma anche quello civile, per cui è importante che la
teoria delle virtù, come è formulata all’interno della dottrina cattolica,
venga messa in relazione con una sana visione dell’uomo e dei rapporti
sociali, com’è stata per esempio formulata dalla filosofia classica.
Le virtù —
e i loro opposti, i vizi — hanno avuto un ruolo fondamentale tanto nel pensiero
quanto nell’educazione della Grecia antica. Veniva criticato, per esempio,
l’eccessivo amor proprio, chiamato in greco filautía, l’egoismo, la
tendenza ad agire unicamente in vista del proprio tornaconto. Platone
(427-347 a. C.) denunciava come l’eccessivo amore di sé fosse la radice dei
mali: "La gran parte degli uomini ha nella sua anima fin dalla
nascita il peggiore dei vizi [...]. [...] con ciò intendo
riferirmi al principio — peraltro è del tutto logico che così debba essere —
secondo cui ogni uomo è per natura portato ad amare se stesso. Di fatto,
però, causa di tutti i vizi per ognuno di noi è il più delle volte una forma
eccessiva di questo amore di sé, perché se è vero che l’amante ama ciecamente
l’oggetto amato, è anche vero che per questo egli non valuta in maniera
esatta il giusto, il bene e il male" (3). Questi concetti si
ritrovano anche in autori cristiani: san Paolo, descrivendo la condizione
dell’uomo nei tempi ultimi e le sue caratteristiche negative, annovera al
primo posto l’egoismo (cfr. 2 Tm. 3, 2). Per san Massimo
Confessore (580 ca.-662) la filautía è legittima se collegata
all’amore di Dio, filotea, e all’amore per il prossimo, filantropia
(4). I Padri della Chiesa hanno visto nell’eccessivo amore di sé il primo
momento di squilibrio interiore, l’origine di tutti i vizi. Solo l’eccessivo
amore di sé porta all’attaccamento a valori e a beni terreni, come la gloria,
la ricchezza e il piacere. San Giovanni Damasceno (650-750 ca.) sostiene:
"Quelli che fanno tutto per se stessi realizzano l’amore di sé, il
più grande di tutti i mali. Di qui viene l’inciviltà, la mancanza di
socievolezza, l’incapacità di avere amicizie, l’ingiustizia, l’empietà. La
natura ha plasmato l’uomo non come un animale selvatico, ma come un essere
socievole, civile, perché non viva soltanto per se stesso ma anche per il
padre, la madre, i fratelli, i figli, gli altri parenti e amici, per il suo
popolo e la sua tribù, per la sua patria e i suoi simili, per tutti gli
uomini; e ancora per le diverse regioni dell’universo, per il mondo intero, e
ben prima di tutto questo, per il Dio e Creatore" (5).
L’esempio
della filautía mostra che l’eccessivo amore di sé non era criticato
solo dalla teologia, ma il retto uso di ragione già in epoca precristiana lo
considerava come il peggiore di tutti i mali, la causa più importante di quel
disordine interiore che ostacola il raggiungimento di una vita equilibrata,
sana e felice.
Il
concetto delle virtù, in greco areté, è diventato ostico all’uomo
moderno; in un’analisi del concetto di cura e salute dell’anima secondo
Platone lo storico della filosofia e filosofo Giovanni Reale nota, per
esempio, che "uno dei termini, squisitamente greci, più difficili da
intendere per l’uomo di oggi è quello di arete" (6).
MacIntyre
ritiene che la modernità si sia affermata anche in opposizione al mondo
antico e alla sua visione dell’uomo, distanziandosi in particolare da
Aristotele e quindi dalla sua ricezione cristiana nel pensiero medioevale,
rappresentata soprattutto da san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274). Un momento
importante di questa opposizione è rappresentato da Martin Lutero: "Quando,
diciotto o diciannove secoli dopo Aristotele, il mondo moderno finì col
ripudiare sistematicamente la visione classica della natura umana (e con
essa, in conclusione, gran parte di quelli che erano stati gli elementi
essenziali della morale), la ripudiò appunto in quanto aristotelismo.
"Quel buffone che ha traviato la chiesa", disse Lutero di
Aristotele" (7).
3. La rivoluzione antropologica di Martin Lutero
Il nome di
Lutero rievoca soprattutto la Riforma protestante, il conflitto con la Chiesa
di Roma e il conseguente scisma. Nonostante la loro indubbia importanza è
limitativo prendere in considerazione solo gli aspetti teologici ed
ecclesiologici, trascurando l’importanza di Lutero per la visione dell’uomo,
per tutta la cultura e la civiltà occidentali. Una delle sue opere più
importanti è, per esempio, il De servo arbitrio, del 1525, in cui,
polemizzando con Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536), mette in discussione
il concetto di libero arbitrio. Questa tesi è senz’altro importante per il
dibattito teologico sul rapporto fra grazia e opere, e sulla possibilità di
acquisire meriti con le proprie azioni. Una divergenza che la Dichiarazione
congiunta sulla Dottrina della Giustificazione della Federazione Luterana
Mondiale e della Chiesa cattolica, del 1998, ha cercato di attenuare: le
divergenze restano, ma le rispettive dottrine sono state esposte in modo tale
da non cadere sotto le condanne reciproche proclamate in passato (8). D’altra
parte, però, il De servo arbitrio ha una portata considerevole in
campo non solo teologico, ma anche in quello filosofico e antropologico.
L’importanza del tema viene sottolineata da Lutero stesso che, dopo attacchi
anche violenti a Erasmo, nella parte conclusiva gli riconosce il merito "[...]
di avere, solo fra tutti, affrontato la vera questione, il punto cruciale
cioè, senza importunarmi con altri problemi fuori luogo, come il papato, il
purgatorio, le indulgenze e cose simili [...]. Tu, e soltanto tu, hai
visto il cardine dei vari problemi e hai affrontato la questione cruciale.
Per questo ti ringrazio dal profondo del cuore" (9).
Lutero
ritiene che il peccato originale abbia compromesso radicalmente le capacità
naturali dell’uomo, creando un abisso fra lo stato primordiale e quello
attuale. La ragione non è più uno strumento affidabile per comprendere
l’ordine divino, per cui l’uomo non può presumere di distinguere il bene dal
male e quindi neanche di conoscere la propria natura e il proprio fine. Ma se
l’uomo non è in grado di conoscere ciò che è bene e ciò che è male, diventa
illusoria la presunzione di fare il bene e di evitare il male. In campo
morale l’uomo non possiede certezze, e tanto meno può pretendere di sapere ciò
che è gradito a Dio e, quindi, di operare per la propria salvezza. È Dio a
operare nell’uomo e "[...] finché Dio non è presente in noi
con la sua azione, tutto quello che noi facciamo è male [...]. Ciò
vuol dire che, quando un uomo è privo dello Spirito di Dio, non compie il
male per un atto di violenza esterna (quasi trascinato per il collo) e contro
la sua volontà (alla maniera in cui un ladro o un malfattore è condotto
contro il proprio volere alla pena), ma lo fa di sua spontanea e piena
volontà" (10). L’uomo è talmente corrotto dal peccato che può fare
solo il male, solo l’azione diretta di Dio può servirsi dell’uomo come
strumento per il bene. L’uomo non è libero: o è completamente condizionato
dal peccato originale o è strumento inconsapevole della volontà divina.
Per
caratterizzare tale condizione l’uomo viene descritto come servo e
prigioniero, servus e captivus. Lutero si serve anche di una
metafora significativa: l’uomo è come una bestia da soma che viene cavalcata
o da Dio o dal demonio.
"La volontà umana è [...] posta nel mezzo, come
una bestia da soma. Se la cavalca Dio, vuole e va dove Dio vuole, come dice
il libro dei Salmi: "Io ero verso di te come una bestia. Ma pure io
resto del continuo con te" [Sal. 73, 22 s.]. Se invece la cavalca Satana,
vuole e va dove Satana vuole. E non è nella sua facoltà scegliersi o cercarsi
uno dei due cavalieri, bensì sono i cavalieri a combattersi l’un l’altro per
ottenerla e possederla" (11). Questa concezione comporta anche una
svalutazione della ragione. Le vie del Signore sono imperscrutabili e l’uso
di ragione non può essere di minimo aiuto. "Infatti, se ignorerò che
cosa, fino a che punto e quanto io posso e farò nei confronti di Dio, mi sarà
allo stesso modo oscuro e ignoto che cosa, fino a che punto e quanto Dio può
e farà nei miei confronti [...]. Ignorato Dio, non posso onorare,
lodare, rendere grazie e servire Dio" (12). L’uomo può solo
affidarsi a Dio, avere fede, sola fides.
Per
cogliere meglio il senso di queste tesi si deve tener conto che Lutero qui
polemizza soprattutto con gli umanisti del Rinascimento e, in particolare,
con Erasmo.
L’Umanesimo
aveva riscoperto l’antichità pagana. Dopo la sintesi, operata da san Tommaso
e dalla Scolastica, di teologia e di filosofia, con una rivalutazione di quest’ultima,
nel Rinascimento si affermano correnti di pensiero che pretendono una
maggiore indipendenza se non l’autonomia della filosofia, con un
atteggiamento critico nei confronti della Sacra Scrittura e delle verità
rivelate. Il Rinascimento è caratterizzato da una visione ottimistica
dell’uomo, non raramente in contrasto con la concezione del peccato
originale, dalla convinzione che l’uomo con il solo uso di ragione è in grado
di conoscere il vero. In questo modo il Rinascimento, l’Umanesimo e un cristianesimo
da questi influenzato avevano accentuato anche il ruolo della ragione. L’uomo
con la ragione, con la riscoperta della filosofia e della cultura antiche e
con l’osservazione della natura sembrava orientato verso il progetto di una
vita umana e di una organizzazione sociale sempre più lontane o addirittura
in contrasto con la Rivelazione, per non parlare di conoscenze scientifiche
che sembravano contraddire la lettera della Scrittura.
La critica
di Lutero è rivolta molto spesso contro queste tendenze: al razionalismo
risponde con la svalutazione della ragione, all’ottimismo con la tesi secondo
cui l’uomo da solo può operare solamente cose malvage. La critica, anche
giustificata, del razionalismo coinvolge però pure il corretto uso di ragione
e misconosce l’importanza della filosofia, anche di quella antica. Quando
Lutero parla di bontà o malvagità delle azioni si riferisce esplicitamente
alla salvezza dell’anima, ma queste tesi hanno ripercussioni anche nella vita
civile, negano la possibilità di dedurre le norme etiche da un ordine
naturale oggettivo la cui legittimità è fondata sulla legge divina.
MacIntyre
sottolinea come le tesi di Lutero abbiano portato alla critica di un concetto
fondamentale dell’antropologia filosofica occidentale a partire da Aristotele,
ossia che l’uomo ha una sua natura particolare, un’essenza, e che questa
comporta anche un fine umano preciso, insito nella sua natura, il telos.
Il concetto di telos è poi indispensabile per la definizione della
virtù. Le virtù infatti sono atteggiamenti interiori, risultato di una
coltivazione di facoltà innate, che consentono di esercitare certe pratiche
nel modo migliore. Ma se non si accetta né che l’uomo abbia un fine, né che
sia possibile stabilire in modo obiettivo ciò che è buono e ciò che è
cattivo, viene a mancare anche ogni possibilità di definire le virtù. Questo
comporta pure una crisi della nozione di santità: se il santo è una persona
che ha esercitato alcune virtù in modo eroico, mettere in discussione la
teoria delle virtù significa pure mettere in discussione la santità.
Queste
considerazioni ci hanno condotto a un punto centrale del tema relativo ai
modelli educativi: già in epoca precristiana, per secoli, l’uomo virtuoso è
stato un modello di vita; pensiamo al kalòs k’agathòs, il "bello
e buono" della civiltà greca, e al vir bonus dicendi peritus della
civiltà romana; nella concezione cristiana oltre all’uomo virtuoso vi è il
santo che ha esercitato le virtù in maniera eroica, che viene portato come
esempio e diventa modello dell’educazione (13).
Il modello
romano presuppone che l’uomo diventi un vir, che abbia integrità
morale; interessante è anche il concetto di dicendi peritus: l’uomo
dev’essere capace di formulare il suo pensiero; servendosi di una
terminologia moderna, dev’esser perito nell’arte e nella tecnica della
comunicazione.
Razionalismo
da una parte e critica della ragione dall’altra mettono in crisi, dopo
secoli, il rapporto tra fede e ragione; questo processo viene descritto in un
passo dell’enciclica Fides et ratio: "Con il sorgere delle
prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con
altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant’Alberto Magno [1205
ca.-1280] e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia
e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui
la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai
rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo medioevo, tuttavia, la
legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una
nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente
in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni giungendo di fatto a una
filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della
fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una
diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni
iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per
riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento
razionale" (14).
4. Dio, uomo e cosmo: leggi divine e diritto umano
Secondo la
visione medioevale l’uomo, in quanto creatura, è fatto a immagine e
somiglianza di Dio, del Creatore, per cui l’introspezione consente di
conoscere o almeno di percepire all’interno dell’uomo l’immagine di Dio.
L’universo, in quanto creazione, porta le tracce del Creatore, per cui anche
l’osservazione e lo studio della natura consentono di conoscere
indirettamente Dio. Esiste poi una relazione fra la creatura e la creazione:
l’uomo viene considerato come un universo in piccolo, come microcosmo,
rispetto all’universo, il macrocosmo.
Questa
concezione metteva in relazione, quindi, tre ambiti del sapere: su Dio,
sull’uomo e sulla natura, cioè teologia, antropologia e cosmologia. Il
discorso sulla fede poteva essere messo in relazione con l’esistenza umana, e
dava una dimensione sapienziale alle scienze, che non descrivevano solamente
fenomeni, ma vi vedevano anche la manifestazione di un ordine superiore.
La
peculiarità della visione del mondo medioevale, con la sua sapienzialità,
viene sottolineata nell’ambito della giurisprudenza da uno storico del
diritto, Paolo Grossi: "Questo diritto ha una sua onticità,
appartiene a un ordine oggettivo, è all’interno della natura delle cose dove
si può e si deve scoprirlo e leggerlo. Intima sapienzialità del diritto:
scritto nelle cose da una suprema sapienza e la cui decifrazione e traduzione
in regole non può che essere affidata a un ceto di sapienti, gli unici capaci
di farlo con provvedutezza" (15). Il diritto non può e non deve
essere un’astrazione, ma deve scoprire l’ordine delle cose, un ordine scritto
da una suprema sapienza. Le leggi fondano la loro legittimità nella loro
corrispondenza a un ordine oggettivo, di origine divina.
"Perdita della dimensione sapienziale non vuol
dire soltanto la sottrazione del diritto a un ceto di competenti, i giuristi,
siano essi maestri teorici o giudici applicatori, ma la perdita del suo
carattere òntico, del diritto come fisiologia della società da scoprire e
leggere nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole" (16).
Grossi
parla di un cammino di cinque secoli, che porta al capovolgimento attuale
delle soluzioni medioevali: "L’itinerario che sboccherà in quella
visione nuova del rapporto fra potere politico e ordine giuridico che, nel
suo perfetto capovolgimento rispetto alle soluzioni medievali, costituirà
l’archetipo moderno, è una strada lunga e accidentata, lunga di quasi cinque
secoli dove novità arroganti si mescolano con le resistenze cospicue d’un
ordine che era riuscito a connaturarsi con le nervature più riposte della
società" (17).
Se viene
messa in discussione la capacità dell’uomo di dedurre norme di comportamento
dalla conoscenza della propria natura e della propria finalità, così come
dall’osservazione della natura, ambedue considerate appunto come
manifestazione di un ordine divino, vi è la necessità di un potere
legislativo che fa le leggi, funzione attribuita prima al sovrano, al
Principe, e successivamente ad altri organi. Grossi sottolinea che, in "[...]
opposizione all’ideale medievale che voleva il Principe soprattutto come
giudice, giudice supremo, il gran giustiziere del suo popolo" (18),
nell’era moderna il sovrano, il Principe incarna sempre di più il potere
legislativo, e la legittimità delle leggi non viene ricondotta a un diritto
di fondo, ma alla decisione del legislatore (19). Questa concezione viene
enunciata in modo paradigmatico durante la Rivoluzione Francese nell’Atto
Costituzionale del 24 giugno 1793: "la legge è l’espressione
libera e solenne della volontà generale; è la stessa per tutti, sia che
protegga, sia che punisca; non può ordinare che ciò che è giusto e utile alla
società; non può impedire che ciò che le è nocivo" (20).
5. Georg W. F. Hegel e lo sviluppo dialettico
Una tappa
importante del pensiero occidentale moderno è rappresentata dal sistema
filosofico del tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831).
Hegel
opera un passaggio determinante. L’ordine che constatiamo nella realtà viene
considerato come il prodotto di uno sviluppo, determinato da una forza
immanente alla realtà stessa. L’essere viene sostituito dal divenire, e,
seconda idea fatale di Hegel, il divenire viene spiegato per mezzo della
dialettica. In altri termini, una condizione attuale non è la realizzazione
di un piano, di un’idea, di un ordine prestabilito, ma è il risultato della
sintesi di due opposti. La contraddizione diventa la radice, la ragione della
realtà. Non esiste un valore assoluto, ogni presunto valore è destinato a
superare la contrapposizione con il suo contrario, dando origine a una
sintesi. Al limite, anche l’essere è identico al nulla, l’Essere assoluto non
è (21). "Secondo Hegel non vi è al mondo una singola cosa che non
abbia in sé un insieme di essere e di nulla. Ogni cosa è solo in
quanto, in ogni momento del suo essere, qualcosa che non è ancora
emerge all’essere e qualcosa che è passa nel non essere. Le cose sono
solo in quanto sorgono e tramontano, cioè l’essere deve esser concepito come
divenire. [...]
"Le categorie dialettiche costruiscono un mondo
tutto sottosopra, che comincia con l’identità di essere e nulla" (22).
Tutte le
realtà diventano effimere, la loro fine è la condizione necessaria per un
nuovo inizio, lo sviluppo consiste nella morte che consente una nuova vita. "Quando
una cosa finita "muore in" un’altra, essa ha mutato se stessa in
quanto morire è il suo modo di attuare le sue vere potenzialità" (23)
e "una determinata forma di esistenza non può sviluppare il suo
contenuto senza perire. Il nuovo deve necessariamente essere la negazione del
vecchio, e non solo una semplice correzione o revisione" (24).
In
contrapposizione alla concezione della filosofia ispirata ai princìpi
cristiani, che interpretava la "negatività" in relazione al
peccato, Hegel sviluppa una differente concezione di "negatività":
negativo è ogni particolare, in quanto si contrappone all’universale,
negativo è il finito rispetto all’infinito. "L’idea hegeliana di
negatività non era né morale né religiosa" (25).
Per Hegel
Bene e Male sono astrazioni, categorie del pensiero, che introducono
diversità, che non hanno una realtà propria.
"Il Bene e il Male erano dunque risultati come
le differenze determinate del pensiero. Poiché la loro opposizione non si è
ancora risolta, e poiché vengono rappresentati come essenze del pensiero
ciascuna delle quali è autonoma e per sé, ecco che l’uomo è il Sé privo di
essenza e costituisce il terreno su cui si produce la sintesi della loro
esistenza e del loro conflitto. Tali potenze universali, tuttavia,
appartengono altrettanto al Sé , nel senso che il Sé è la loro realtà" (26).
L’uomo
quindi non ha né essenza né una natura determinata, ma è il prodotto del
conflitto fra due potenze universali, il Bene e il Male, che si attualizzano
proprio nel Sé. In questa prospettiva una valutazione morale del Bene e del
Male non è più possibile. Proprio la dialettica hegeliana consente di
affermare contemporaneamente l’identità e la non identità di Bene e Male: "Infatti,
nella misura in cui Bene e Male sono identici, allora il Male non è
Male né il Bene Bene. [...]
"[...] così si deve ugualmente dire che essi non
sono identici, ma assolutamente diversi" (27).
Da un
certo punto di vista il negativo, il Male, è l’essere individuale che si è
estraniato dall’essenza divina, e la riconciliazione dell’esistenza
individuale con Dio corrisponde alla riconciliazione del finito e del Male
con Dio.
"Qui è dunque rappresentata la riconciliazione
dell’essenza divina con l’altro in generale, e precisamente con il pensiero
di questo altro, con il Male" (28).
Diversi
autori hanno sottolineato le conseguenze dell’interpretazione dialettica del
concetto di riconciliazione.
Alma von
Stockhausen, già docente di filosofia all’università di Friburgo in
Brisgovia, per anni allieva del filosofo tedesco Martin Heidegger
(1889-1976), sottolinea che: "Riconciliazione, da Hegel considerata
come conciliazione di opposti, non converte, non trasforma il male in bene,
ma mostra che il male è solo apparentemente opposto al bene. In sé ambedue i
momenti — bene e male, vita e morte, finito e infinito, uomo e Dio — per loro
natura sono legati necessariamente l’uno all’altro. La dialettica speculativa
c’insegna che la conversione deve essere intesa come una svolta dello spirito
che, da questo "punto di vista superiore", riconosce che il male e
quanto è debole e finito sono solo l’altra parte della coscienza, che procede
verso l’autocoscienza" (29).
Gerald
Hanratty, docente di filosofia all’università di Dublino, riconosce che, "alla
luce della sintesi finale, il male era visto come un momento necessario nel
processo universale dell’estraniazione e del ritorno" (30).
La
concezione hegeliana, che considera il male come una componente necessaria
dello sviluppo e della storia, ha influenzato, secondo lo scrittore francese
Albert Camus (1913-1960), anche la concezione della morale di tutti i
movimenti che a Hegel si sono ispirati: "I movimenti politici o
ideologici, ispirati da Hegel, si riuniscono tutti nell’abbandono manifesto
della virtù" (31).
6. Dopo Hegel: il concetto di sviluppo
Il
filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) sottolinea, nella Gaia
scienza, che proprio Hegel ha introdotto il concetto di "svolgimento"
(32) nella scienza, cioè il concetto di Entwicklung, che significa
anche "sviluppo" ed "evoluzione", come nel caso è forse
più pertinente tradurre, a ciò indotti e confortati dal fatto che, nello
stesso testo e immediatamente prima, egli si esprime in proposito in modo
lapidario: "senza Hegel non ci sarebbe Darwin [Charles Robert
(1809-1882)]" (33). Questa tesi capovolge concezioni correnti,
secondo le quali sarebbero stati i risultati delle sue osservazioni a portare
Darwin all’elaborazione della teoria dell’evoluzione. Secondo Nietzsche,
invece, le origini della teoria dell’evoluzione vanno ricercate nell’idea di
sviluppo della filosofia hegeliana. Se Nietzsche ha ragione, ne deriva pure
che le correnti di pensiero e le teorie che si sono ispirate a Darwin sono
state influenzate indirettamente dal pensiero hegeliano.
Il
progressivo abbandono della concezione che considera gli esseri viventi come
creature rispondenti a un piano prestabilito e la nuova idea di sviluppo
hanno avuto ripercussioni sul pensiero scientifico, portando all’elaborazione
di una nuova concezione dell’organismo.
Il
politologo tedesco Eric Voegelin (1901-1985), descrivendo lo sviluppo delle
teorie della razza nei secoli XVII e XVIII, ritiene decisiva la progressiva
trasformazione del concetto di organismo: l’essere vivente non viene più
considerato come creazione, ma diventa sempre più una "sostanza che
porta in sé la propria legge, che non è prodotta o animata dall’esterno, in
quanto l’organismo stesso è la forza originaria; che non riceve la vita
dall’esterno, ma che esiste attingendo alla propria vitalità" (34).
Tale concezione esclude l’idea di un inizio e di una creazione, lo stato
attuale di ogni organismo può essere spiegato come il prodotto di uno
sviluppo anteriore. Questo concetto applicato all’uomo porta a una visione
immanentistica: l’uomo ha in sé la ragione del proprio sviluppo. In certi
casi questo determina un rovesciamento della concezione che voleva l’uomo
dipendente da una forza superiore esterna: lo sviluppo dell’uomo, la sua
grandezza, dipende piuttosto da una forza vitale di tipo demoniaco. "Goethe
e Schiller trovano la parola che coglie la potenza dell’esistenza umana nella
sua dimensione terrena, il demoniaco. Anima e ragione presentano una
connotazione cristiana [...] L’idea del demoniaco, invece, richiama
volutamente concezioni pagane: il sacro e la moralità passano in secondo
piano, la fecondità e la produttività in primo piano. Demoniaco significa per
Goethe la grande produttività, che pone opere e azioni in uno stato
d’illuminazione e di grazia; il demone è l’uomo esaltato, che vive a partire
dal centro di un Sé creativo, indefessamente, senza momenti di
debolezza" (35).
L’introduzione
dell’idea di sviluppo, la concezione della dialettica e infine il nuovo
modello di organismo hanno sconvolto anche la concezione dell’uomo, negando
l’esistenza di una natura umana definita e stabile. Un individuo non è una
delle molteplici manifestazioni dell’essenza umana, di una natura umana
comune e uguale a tutti gli uomini — non solo di quelli viventi, ma anche di
ogni tempo passato — e considerata pure immutabile anche per il futuro.
L’uomo, come ogni essere vivente, non è che il momentaneo prodotto di uno
sviluppo: l’uomo attuale è differente da quello di ieri e sarà superato da
quello di domani.
Anche le
funzioni superiori dell’uomo vengono interpretate come prodotto di questo
processo, in cui la materia si estrania da sé stessa per dare origine alla
coscienza. Il processo dialettico dovrebbe spiegare la nascita del più
complesso dal meno complesso. La contraddizione diventa la ragione del reale,
la contrapposizione tra positivo e negativo viene considerata come
un’astrazione che viene superata nella realtà dalla sintesi di ambedue. Se il
negativo è necessario allo sviluppo non meno del positivo, diventa del tutto
arbitrario definire il negativo come tale. I concetti di bene e male vengono
trasformati in modo radicale, bene e male non possono riferirsi più a valori
assoluti, ma vengono subordinati all’idea di sviluppo: buono è ciò che
facilita lo sviluppo, dannoso e cattivo è ciò che lo frena, cercando, per
esempio, di fissare la contrapposizione tra tesi e antitesi. Per questo
l’orientamento univoco verso determinati valori anche se considerati
positivi, così come l’esclusione del loro contrario, non può che avere un
effetto frenante sullo sviluppo. Mentre favorevole allo svilupppo risulta
l’integrazione anche degli elementi considerati negativi.
7. La psicologia del profondo: Sigmund Freud e Carl
Gustav Jung
a. Sigmund Freud
Alcuni dei
concetti fin qui descritti rappresentano anche presupposti per la nascita
della psicologia del profondo, spesso chiamata pure psicologia dinamica.
L’attività psichica cosciente perde quel ruolo fondamentale che le era stato
comunemente attribuito nella civiltà occidentale: le funzioni coscienti
vengono ora considerate come il prodotto dell’attività di forze inconscie. Se
non esiste una natura umana stabile, la psicologia deve cercare di scoprire
per quanto possibile le forze soggiacenti e il loro dinamismo.
In Una
difficoltà della psicoanalisi il medico austriaco Sigmund Freud
(1856-1939) imputa le difficoltà dei suoi contemporanei ad accettare la
psicoanalisi a una ferita dell’amor proprio, alle resistenze provocate dalla
pretesa della psicoanalisi di mettere in dubbio una delle convinzioni
fondamentali dell’uomo, la sua superiorità rispetto agli animali basata sulla
convinzione che questi ultimi vengono guidati dagl’istinti mentre lui è
dotato di ragione e di volontà. La psicoanalisi sostiene invece che la parte
cosciente della vita psichica umana è dominata dagl’istinti che agiscono a
livello inconscio, l’Es, per cui la padronanza di sé, che dovrebbe
distinguere l’uomo dall’animale, sarebbe quasi sempre un’illusione: l’uomo
non è padrone di sé, o, in altri termini, "[...] l’Io non è
padrone in casa propria" (36).
"Ma le due spiegazioni — che la vita pulsionale
della sessualità non si può domare completamente in noi, e che i processi
psichici sono per sé stessi inconsci e soltanto attraverso una percezione
incompleta e inattendibile divengono accessibili all’Io e gli si sottomettono
— equivalgono all’asserzione che l’Io non è padrone in casa propria" (37).
Descrivendo
questa situazione Freud paragona l’Io a un cavaliere e l’ambito istintuale,
l’Es, a un cavallo: "Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere
paragonato a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia
per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di
dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo
spesso il caso, non ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero
là dove quello ha scelto di andare" (38).
Dopo aver
considerato a lungo la Libido come l’istinto per eccellenza,
successivamente Freud ha contrapposto alla Libido, all’Eros,
l’istinto di morte, Thanatos: Eros e Thanatos sono i due
princìpi fondamentali responsabili dello sviluppo tanto della natura quanto
dell’uomo.
Se si
tiene conto di questa teoria delle pulsioni, il confronto della metafora
freudiana dell’Io come cavaliere con quella della bestia da soma di Lutero
mostra interessanti somiglianze, oltre a talune differenze. Tralascio il
confronto fra queste due metafore e la tesi di Hegel citata più sopra, che
considera l’uomo privo di essenza e solamente come terreno del conflitto e
della sintesi di Male e di Bene.
In un caso
l’Io viene cavalcato, nell’altro cavalca. In ambedue i casi però l’Io non è
libero, ma viene condizionato da forze sovrastanti o sottostanti che ne
determinano la meta. Tanto per Lutero quanto per Freud sono due forze in
contrasto fra di loro a decidere il destino dell’uomo: in un caso Dio e
Satana, nell’altro Eros e Thanatos, l’amore e l’istinto di
morte. La metafora di Lutero corrisponde a una concezione che ammette potenze
trascendenti al di sopra dell’uomo, che lo guidano dall’alto. La metafora di
Freud corrisponde a una visione immanentistica, negatrice della trascendenza,
e le due forze vengono identificate con forze naturali, con istinti.
La visione
dualista di Freud si discosta dalla tradizione dell’Occidente cristiano; si
pensi alla differenza fra una visione che spiega la natura con la
contrapposizione dialettica di Eros e di Thanatos e quella
invece formulata in modo magistrale da Dante Alighieri (1265-1321) con "l’amor
che muove il sole e l’altre stelle" (39).
Thanatos, il principio di morte, diventa un elemento
necessario tanto della storia naturale quanto di quella della civiltà umana,
sì che, quando il fisico tedesco, naturalizzato svizzero, Albert Einstein
(1879-1955), su invito dell’Istituto Internazionale di Cooperazione
Intellettuale della Società delle Nazioni, gli pose la questione: "C’è
un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?" (40),
Freud rispose in modo piuttosto ambiguo.
Freud
espone la sua teoria dei due istinti opposti e della loro interdipendenza: "Noi
presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che
tendono a conservare e a unire [...] e quelle che tendono a
distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione
di pulsione aggressiva o distruttiva. [...] Non ci chieda ora di
passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Entrambe le pulsioni
sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal
loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di
un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre connessa — legata, come noi
diciamo — con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta
o, talvolta subordina il raggiungimento di quest’ultima a determinate
condizioni" (41).
Se
tendenze distruttive e omicide sono necessarie per i processi vitali,
indispensabili per raggiungere talune mete, diventa difficile darne una
valutazione morale. "Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei
e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose
calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente
giustificata biologicamente, e in pratica assai poco evitabile" (42).
Dopo aver
escluso la possibilità di condannare la guerra per motivi etici, Freud
dichiara la propria avversione alla guerra per motivi estetici.
b. Carl Gustav Jung
Lo
psichiatra svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961), già allievo di Freud ma
successivamente fondatore di una propria scuola, quella della Psicologia
Analitica, ha elaborato una teoria della vita psichica spiccatamente
dialettica. Lo sviluppo psichico procede in modo dialettico, dall’unità
originaria si scindono due opposti che devono arrivare a una sintesi, la coniunctio
oppositorum. Questa sintesi contraddice la logica corrente e resta un
mistero, il mysterium coniunctionis.
"Tutto ciò che è umano è relativo, perché tutto si
fonda su un contrasto interno e tutto è fenomeno energetico. Ma l’energia
presuppone necessariamente l’esistenza di un contrasto, senza il quale non
esisterebbe energia. [...]
"Non si tratta di operare una conversione
totale, bensì di conservare i valori precedenti e insieme di
riconoscere i loro contrari. Questo implica un conflitto con sé stessi,
significa lacerazione. È comprensibile che questa prospettiva ingeneri timori
e resistenze sia sul piano filosofico che su quello morale" (43).
Anche se
vi sono situazioni nelle quali si può riconoscere la validità di argomenti
opposti, e a seconda della situazione propendere più per l’uno che per
l’altro, l’assolutizzazione del principio dialettico, come riconosce anche
Jung, è ostica tanto a una sana filosofia quanto alla concezione morale. Per
Jung la lacerazione interiore dell’uomo dipende dal fatto che Dio,
incarnandosi continuamente nell’uomo, deve potersi incarnare completamente,
tanto con il proprio lato luminoso quanto con quello oscuro.
"Ma Dio [...] vuole anche divenire uomo
e a questo scopo si è scelto attraverso lo Spirito Santo l’uomo-creatura con
tutte le sue oscurità, l’uomo naturale macchiato dal peccato originale e al
quale gli angeli caduti hanno insegnato le scienze e le arti. L’uomo
colpevole è adatto a divenire la sede dell’incarnazione progressiva, ed è
perciò che non viene scelto l’uomo innocente che si rifiuta al mondo e che
si rifiuta di pagare alla vita il suo giusto tributo; in quest’ultimo, il Dio
oscuro non troverebbe lo spazio di cui ha bisogno.
"Dall’Apocalisse in poi sappiamo
nuovamente che Dio non deve venire soltanto amato ma anche temuto. Egli
ci riempie di bene ma anche di male, altrimenti non ci sarebbe bisogno di
temerlo, e siccome vuole divenire uomo, la soluzione della Sua antinomia deve
aver luogo nell’uomo" (44).
Per Jung
Dio non è solamente buono, ma nella sua natura è insita l’antinomia di bene e
di male. La contrapposizione postulata dal cristianesimo di bene e male, di
Trinità e Satana, dovrebbe esser superata dalla loro sintesi. Jung ha quindi
proposto di sostituire la Trinità con una Quaternità, in cui Satana
rappresenterebbe la quarta persona.
Queste
considerazioni vengono applicate, come abbiamo visto, anche all’uomo. Dio
riempie l’uomo di bene ma anche di male, l’incarnazione di Dio può avvenire
quindi solo nell’uomo colpevole, mentre l’uomo innocente potrebbe incarnare
solo un aspetto di Dio!
Queste
teorie influenzano anche la visione della storia di Jung, caratterizzata da
un ottimismo di fondo, che pur riconoscendo il male, lo ritiene un momento
necessario del processo dialettico: "[...] anche nel migliore,
anzi, appunto nel migliore è il germe del male, e nulla è così cattivo che
non ne possa seguire un bene" (45).
Queste
teorie della psicologia del profondo si confrontano con uno dei problemi
umani più radicali, l’origine e la natura del male, e con un tema
fondamentale della tradizione biblica, il peccato originale. La tradizione
cristiana distingue tra una condizione originaria anteriore alla caduta e la
condizione attuale segnata dalle conseguenze del peccato originale. Per la
tradizione biblica il peccato ha compromesso in parte l’ordine insito nella
natura senza offuscarlo del tutto.
Per Freud
e Jung la coesistenza all’interno della natura tanto di un ordine quanto di
tendenze aggressive e distruttive ne dimostrerebbe l’interdipendenza: il
grado di sviluppo attuale della natura sarebbe stato raggiunto anche grazie
al momento distruttivo. Il loro naturalismo tende ad attribuire alla natura
dopo il peccato originale un valore normativo. In altri termini
l’aggressività e la violenza che si riscontrano in natura e nell’uomo devono essere
considerate come "naturali", diventa innaturale cercare di
superarle. Varie scuole della psicologia moderna, ispirandosi alle teorie di
Freud e di Jung, hanno ripreso e a volte sviluppato in modo autonomo il tema
dell’importanza degl’istinti per la vita psichica e il problema
dell’aggressività. In questa trattazione ci si deve limitare a esaminare solo
alcune figure.
8. Wilhelm Reich e la psicologia umanistica
a. Wilhelm Reich
Lo
psicanalista austriaco Wilhelm Reich (1897-1957) riconosce a Freud il merito
di aver rivelato come dietro una facciata perbenista l’uomo presenti tendenze
inconsce aggressive e distruttive, però lo critica per aver considerato
questo strato dell’inconscio come quello originario e quindi di aver
considerato l’istinto di morte come naturale: "La biofisica orgonica [la
teoria sviluppata da Reich] riuscì a scoprire che l’inconscio di Freud,
l’aspetto antisociale dell’uomo, non era altro che il risultato secondario
della repressione di pulsioni biologiche primarie" (46).
Per Reich,
al di sotto di questo inconscio esiste uno strato ancor più profondo
unicamente positivo, caratterizzato da "pulsioni biologiche
primarie". Questa concezione sugli strati primitivi della psiche ha
una corrispondenza nella storia dell’umanità primitiva. Mentre per Freud lo
scontro di Eros e Thanatos è indispensabile per lo sviluppo
dell’umanità, per Reich questo conflitto caratterizza la storia dell’umanità
a partire da un momento storico ben preciso, cioè quando l’inizio della
repressione delle pulsioni biologiche primarie avrebbe modificato
radicalmente la struttura della società, provocando il passaggio dalla fase
matriarcale a quella patriarcale. Per Reich la società matriarcale non
conosceva ancora la proprietà privata, la struttura familiare, l’autorità
paterna e politica, la repressione sessuale, una religione trascendente e con
un Dio padre. Reich ritiene che la violenza nasca come effetto o come
reazione all’ordine "patriarcale". Il problema della violenza
potrebbe essere risolto non con l’imposizione di un ordine, con il
rafforzamento del controllo, ma al contrario con la liberazione da
imposizioni.
b. Carl R. Rogers
Lo
psicologo statunitense Carl R. Rogers (1902-1987), uno dei maggiori esponenti
della cosiddetta psicologia umanistica, ha sviluppato un proprio metodo
definito come "approccio centrato sulla persona" (47).
"In ogni organismo, a qualunque livello, esiste
un sottostante flusso dinamico diretto all’adempimento costruttivo delle
potenzialità a esso inerenti. Nell’uomo c’è una tendenza naturale verso il
completo sviluppo, che viene spesso designata come tendenza attualizzante,
presente in tutti gli organismi viventi: questo è il fondamento su cui è
edificato l’approccio centrato sulla persona" (48).
Qui appare
problematico l’uso del termine persona. Come si può ancora parlare di
approccio centrato sulla persona, se questo approccio è fondato sulla
convinzione che l’uomo non è che un organismo, il cui funzionamento non è
differente da quello degli altri esseri viventi?
Rogers
ritiene che in ogni organismo vivente vi sia una tendenza attualizzante
capace di dirigere lo sviluppo nella direzione giusta e di trovare in ogni
condizione esterna le modalità per mettere in atto nel modo più completo
possibile le proprie potenzialità, per realizzare quella che viene definita
una "vita piena" (49). Nell’uomo questa tendenza
attualizzante sarebbe ostacolata dall’attività psichica cosciente, che per
motivi culturali e per i condizionamenti ricevuti durante l’educazione
subordinerebbe la tendenza attualizzante a principi e valori esterni. I
timori di possibili conseguenze negative, nel caso che l’uomo si lasciasse
guidare dalla tendenza attualizzante, sarebbero per Rogers infondati. "Il
comportamento dell’uomo è invece squisitamente razionale e si orienta, con
una complessità sottile e ordinata, verso le mete che l’organismo gli
propone. Ciò che è tragico per la maggior parte di noi, è che l’atteggiamento
di difesa ci impedisce di renderci pienamente conto di tale razionalità,
cosicché, mentre i dati a disposizione della coscienza ci orientano in una
direzione determinata, l’organismo ci spinge nella direzione opposta" (50).
Rogers
sostiene che le mete per l’uomo vengono poste dall’organismo, e che i "dati
a disposizione della coscienza" distolgono l’uomo dal perseguimento
della meta posta da quello. Viene introdotta a questo proposito una
contrapposizione fra Io e organismo, fra ragione e sentimenti. L’uomo
dovrebbe fidarsi meno della ragione e dei valori della cultura e della
tradizione e affidarsi piuttosto ai sentimenti, vivere i sentimenti.
"Riassumendo, un approccio centrato sulla
persona è basato sulla premessa che l’essere umano sia un organismo
fondamentalmente degno di fiducia, capace di valutare la situazione interna
ed esterna, di comprendere se stesso nei propri contenuti, di fare scelte
essenziali riguardo ai successivi passi nella vita e di agire in base a
queste scelte" (51).
Queste
teorie di Rogers hanno ispirato, insieme ad altre, per esempio a quelle
formulate dalla cosiddetta scuola di Francoforte, concezioni antiautoritarie,
che all’inizio furono accolte con sospetto: "[...] intorno al
1950 venni ufficialmente avvertito alla Menninger Clinic, dei possibili
effetti delle mie idee. Mi dissero che avrei potuto produrre un pericoloso
psicopatico, poiché non ci sarebbe stato nessun controllo sull’innato nucleo
distruttivo dell’uomo" (52), ma col tempo hanno avuto un’influenza
sempre maggiore in vari ambiti della società americana prima e
successivamente anche in altri paesi. Lo psichiatra statunitense Paul Vitz ha
criticato la psicologia umanistica, che, concentrandosi
sull’autorealizzazione, indulge al narcisismo, all’egoismo, e sottolinea pure
che "l’ottimismo rogeriano ha coerentemente escluso la trattazione
sistematica di problemi come l’aggressività distruttiva, il sadismo e il sé
narcisista" (53).
Solo negli
anni 1970 Rogers stesso dichiara piuttosto candidamente di non essersi reso
conto prima delle implicazioni politiche e sociali del suo approccio, che
aveva cercato "di evidenziare le condizioni che rendono possibile il
cambiamento e lo sviluppo della persona, nonché gli specifici effetti o
conseguenze di tali condizioni, ma non avevo mai considerato con attenzione
la politica interpersonale posta in essere. Solo ora comincio a intravedere la
natura rivoluzionaria di quelle forze politiche e mi sono visto costretto a
riconsiderare e rivalutare tutto il mio lavoro" (54).
Eppure gli
effetti rivoluzionari delle sue tecniche erano molto evidenti, come dimostra
ad esempio l’esperienza di una congregazione religiosa della California. A
Rogers era stato affidato l’incarico di applicare i suoi metodi di sedute di
gruppo alle Suore del Cuore Immacolato di Maria. Con numerosi collaboratori
iniziò le sue sedute di gruppo nel 1966 con circa 615 suore. Un suo stretto
collaboratore, William Coulson, rivela che dopo un anno di sedute circa
trecento suore avevano chiesto a Roma di poter rinunciare ai voti (55).
c. Erich Pinchas Fromm
La
psicologia umanistica pretende che ciascun individuo sviluppi il suo potenziale
indipendentemente da consuetudini e leggi, e lo vuole aiutare a prendere le
distanze da norme e valori, a superare la paura di trasgredire prescrizioni e
ad affidarsi invece ai propri sentimenti. La disubbidienza — come sostiene lo
psicanalista tedesco Erich Pinchas Fromm (1900-1980) — diventa un valore in
sé: "Si deve ricordare che, secondo i miti ebraici e greci, la storia
umana iniziò con un atto di disubbidienza. Quando Adamo ed Eva vivevano nel
giardino dell’Eden, facevano ancora parte della natura, come il feto nel
grembo della madre. [...] Il loro atto di disubbidienza spezzò il
legame originario con la natura e li rese individui. La disubbidienza fu il
primo atto di libertà, l’inizio della storia umana. Prometeo, rubando il
fuoco agli dèi, è un altro dissidente che disubbidisce. [...] L’uomo
ha continuato a progredire con atti di disubbidienza non solo nel senso che
la sua evoluzione spirituale fu resa possibile da individui che osarono dire
"no" alle forze che volevano sostituirsi alla loro coscienza o alla
loro fede. La sua evoluzione intellettuale dipese anche dalla capacità di
disubbidire" (56).
9. La crisi della morale, dalla teologia alla
psicologia
Negli
ultimi secoli vi è stata una lenta trasformazione: agl’inizi è stata messa in
dubbio la capacità della teologia di dare risposte certe a questioni etiche
fondamentali. Per un certo periodo la cultura moderna ha sperato di ottenere
risposte valide a tali quesiti dalla filosofia, fino a quando, in un clima di
crescente relativismo, sono state messe in discussione anche le certezze
filosofiche in campo etico. Nella fase successiva la filosofia lascia spazio
alla psicologia: le norme etiche non avrebbero validità oggettiva e alla
psicologia spetterebbe proprio il compito di chiarire tanto le loro radici
soggettive quanto i loro effetti sulla vita psichica individuale.
Contemporaneamente
si è modificato il rapporto dell’antropologia con la teologia e le scienze
naturali: se ancora in epoca medioevale vi era la distinzione fra Creatore,
creatura e creazione, Hegel postula un’identica essenza per Dio, la natura e
l’uomo: vi sarebbe infatti l’"identità dell’essenza divina con
la natura in generale e con la natura umana in particolare" (57).
Per il filosofo tedesco l’essenza divina agisce nella natura, ne determina lo
sviluppo fino alla comparsa dell’uomo. Dopo Hegel il problema dell’essenza
divina passa frequentemente in secondo piano, in certi casi è l’energia
vitale a essere divinizzata, e resta l’assunto dell’identità dell’essenza
dell’uomo e della natura; perciò le scienze umane diventano solo una
disciplina particolare delle scienze naturali. In questa prospettiva lo
sviluppo dell’uomo e della natura sarebbe determinato dalle stesse forze
naturali e sarebbe soggetto alle stesse leggi, per cui i presunti strumenti
dell’evoluzione, come la selezione e la lotta per l’esistenza, avrebbero
valore anche per l’uomo e la società umana.
Una
tendenza al male è insita in ogni uomo, per questo è necessaria la formazione
di una coscienza morale, che riconosca l’esistenza di un bene individuale
ordinato a un bene comune della società e contemporaneamente un’adeguata
formazione del carattere, in modo che l’individuo riconosca l’esistenza di
leggi, di limiti alla sua discrezionalità e impari a controllarsi. Oggi, invece,
correnti importanti della cultura moderna considerano queste tendenze
egoistiche, aggressive e distruttrici come un elemento necessario allo
sviluppo e, invece di aiutare a contenerle, ritengono necessario che
l’individuo le assecondi.
Ermanno Pavesi
***
* Testo
riveduto della conferenza tenuta a Modena, il 30-11-2002, in occasione
dell’incontro organizzato dal Centro di Bioetica Giuseppe Moscati, con il
patrocinio dell’Assessorato Comunale alla Sanità e Servizi Sociali, sul tema Modelli
educativi, violenza e aggressività sociali (cfr. Cristianità, anno
XXXI, n. 316, marzo-aprile 2003, pp. 25-26).
(1) Cfr.
Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, trad. it.,
Feltrinelli, Milano 1993.
(2) Ibid.,
pp. 70-71.
(3)
Platone, Leggi V, 731 D-E, in Idem, Tutti gli scritti, a cura
di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1991, p. 1547.
(4) Cfr. Irénée Hausherr
S.J. (1891-1978), Philautía. Dall’amore di sé alla carità, trad.
it., a cura di Lisa Cremaschi, monaca di Bose, Qiqajon. Comunità di Bose, Magnano
(Biella) 1999, pp. 155-156.
(5) Cit. ibid.,
p. 59.
(6) G.
Reale, Cura e salute dell’anima secondo Platone. La filosofia come terapia
dell’anima e come ricerca del bene supremo, in Idem, Corpo anima e
salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Cortina, Milano 1999, pp.
261-279 (p. 261).
(7) A.
MacIntyre, op. cit., p. 199.
(8) Cfr.
Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani e Federazione Luterana
Mondiale, Dichiarazione congiunta sulla giustificazione, trad. it., in
il Regno. Pubblicazione di documenti e attualità, anno XLIII, n. 812
(7), Bologna 1°-4-1998, pp. 250-256.
(9) Martin
Lutero, Il servo arbitrio (1525), trad. it. e note di Marco Sbrozzi, a
cura di Fiorella De Michelis Pintacuda, Claudiana, Torino 1993, p. 415.
(10) Ibid., p. 122.
(11) Ibid., p. 125.
(12) Ibid., p. 93.
(13) Cfr.
Marcel De Corte (1905-1994), Fenomenologia dell’autodistruttore. Saggio
sull’uomo occidentale contemporaneo, trad. it., Borla 1967, in
particolare il capitolo La crisi delle élites, pp. 95-123.
(14)
Giovanni Paolo II, Enciclica "Fides et ratio" circa i rapporti
tra fede e ragione, del 14-9-1998, n. 45.
(15) Paolo
Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2001, p.
23.
(16) Ibid., p. 6.
(17) Ibid., p. 27.
(18) Ibid., p. 30.
(19) Cfr. ibid., pp. 32-33.
(20) Ibid., p. 97, n.
15.
(21) Cfr.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio (1830), trad. it., con introduzione, note e apparati di
Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 815.
(22)
Herbert Marcuse (1898-1979), Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere
della "teoria sociale", trad. it., il Mulino, Bologna 1997, p.
173.
(23) Ibid., p. 180.
(24) Ibid., p. 183.
(25) Ibid., p. 179.
(26) G. W.
F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad. it., con introduzione, note
e apparati di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, pp. 1013 e 1015.
(27) Ibid., p. 1019.
(28) Ibidem.
(29) Alma von Stockhausen, Mythos
. Logos.
Evolution. Dialektische Verknüpfung von Geist und Materie [Mito,
Logos, Evoluzione. La sintesi dialettica di spirito e di materia], Hänssler,
Neuhausen-Stoccarda 1981, p. 188.
(30) Gerald Hanratty, Studies
in Gnosticism and the Philosophy of Religion, Four Courts Press, Dublino
1997, pp. 112-113.
(31)
Albert Camus, L’uomo in rivolta, trad. it., in Idem, Opere. Romanzi,
racconti, saggi, a cura e con introduzione di Roger Grenier, con apparati
di Maria Teresa Giaveri e R. Grenier, Bompiani, Milano 2000, pp. 617-952 (p.
778).
(32)
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, in Opere
di Friedrich Nietzsche, vol. V, tomo II, trad. it., nuova ed. riveduta,
Adelphi, Milano 2003, p. 279.
(33) Ibidem.
(34) Erich
Voegelin, Die Rassenidee in der Geistesgeschichte von Ray bis Carus
[L’idea della razza nella storia del pensiero da Ray a Carus], Junker e
Dünnhaupt, Berlino 1933, p. 6.
(35) Ibid.,
p. 8.
(36)
Sigmund Freud, Una difficoltà della psicoanalisi (1916), in Idem, Opere
1915-1917. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, trad. it.,
vol. 8, Boringhieri, Torino 1976, pp. 653-664 (p. 663).
(37) Ibidem.
(38) Idem,
Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932), in Idem,
Opere 1930-1938. L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti,
trad. it., vol. 11, Boringhieri, Torino 1979, pp. 115-284 (p. 188).
(39) Dante
Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, canto XXXIII, v. 145.
(40) Lettera
di Albert Einstein a Sigmund Freud, del 30 luglio 1932, in S. Freud, Perché
la guerra? (Carteggio con Einstein) (1932), in Idem, Opere 1930-1938.
L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, cit., pp.
285-303 (p. 289).
(41) Ibid.,
p. 298.
(42) Ibid.,
p. 301.
(43) Carl
Gustav Jung, Psicologia dell’inconscio, trad. it., in Opere di C.
G. Jung, vol. 7, Due testi di psicologia analitica, Boringhieri,
Torino 1983, pp. 1-120 (pp. 76-77).
(44) Idem,
Risposta a Giobbe, trad. it., in Opere di C. G. Jung, vol. 11, Psicologia
e religione, Boringhieri, Torino 1979, pp. 337-457 (p. 441).
(45) Idem,
L’Io e l’inconscio, trad. it., in Opere di C. G. Jung, vol. 7, Due
testi di psicologia analitica, cit., pp. 121-236 (p. 182).
(46)
Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, trad. it., Mondadori,
Milano 1974, p. 9; cfr. un inquadramento dell’opera e del pensiero di Reich,
nel mio Il "pansessualismo" di Wilhelm Reich, in Secolo
d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno IL, n. 64, Roma
17-3-2000, p. 20.
(47) Carl
R. Rogers, Potere personale. La forza interiore e il suo effetto
rivoluzionario, trad. it., Astrolabio, Roma 1978, p. 15.
(48) Ibidem.
(49) Cfr.,
per esempio, Idem, La "Terapia centrata-sul-cliente". Teoria e
ricerca, trad. it., Psycho di G. Martinelli, Firenze 1994, capitolo La
vita piena, pp. 182-195.
(50) Ibid.,
p. 194.
(51) Idem,
Potere personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario,
cit., p. 21.
(52) Ibid.,
p. 23.
(53) Paul
Vitz, Psicologia e culto di sé. Studio critico, trad. it., EDB.
Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1990, p. 50.
(54) C.
Rogers, Potere personale. La forza interiore e il suo effetto
rivoluzionario, cit., p. 13.
(55) Cfr. William R.
Coulson, "We overcame their traditions, we overcame their
faith". A contrite Catholic psychologist’s disturbing testimony about
his central role in the distruction of religious orders ["Abbiamo
travolto le loro tradizioni, abbiamo travolto la loro fede". Una
scomoda testimonianza contrita di uno psicologo cattolico sul suo ruolo
centrale nella distruzione di ordini religiosi"], intervista a cura del
dottor William Marra, in The Latin Mass. A Journal
of Catholic Culture, vol. III, n. 1, Ramsey
(New Jersey) gennaio-febbraio 1994, pp. 14-22; e Idem, Groups, Gimmicks
and Instant Gurus. A lively Examination of Encounter Groups and Their
Distortions [Gruppi, trucchi e guru del momento. Un esame
dal vivo dei gruppi d’incontro e dei loro effetti distorcenti], Harper &
Row, New York-Evanston-San Francisco-Londra 1972.
(56) Erich Pinchas Fromm, Marx
e Freud. Oltre le catene dell’illusione, 1962,
trad. it., il Saggiatore, Milano 1997, pp. 176-177; cfr. un inquadramento,
nel mio Erich Fromm tra Marx e Freud, in Secolo d’Italia.
Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVII, n. 124, Roma 29-5-1998, p.
20.
(57) G. W.
F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 1021.
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